Che cosa si può dire del più bello dei palazzi?
Chi ama stare a proprio agio dirà che è il più comodo, chi preferisce la ricchezza penserà al più sontuoso. Chi adora i panorami penserà a vertiginose altezze vetrate. Ci sono molti tipi di palazzi.

Il primo di tre itinerari nel palazzo vescovile di Alba svela una bellezza semplice e umana, attraverso le vicende di uno dei più appassionati e illustri abitanti della sua storia.
Itinerario del vescovo Paolo Brizio
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Nel mese di giugno del 1642 la torre è crollata forse per l’incuria, forse per scosse di terremoto dell’anno precedente: i volumi e le pergamene sono sparsi tra le macerie, la casa è in rovina, con porte e finestre rotte. Il giardino non ha protezione. Quattro anni di “sede vacante” sono bastati a far del palazzo la terra dei soldati.
Siamo in uno sciagurato secolo – il Seicento – ricordato perlopiù per guerre, epidemie e terremoti. Anche la volta della cattedrale di Alba è crollata, mentre la Chiesa a Roma è scossa dalla Controriforma. I terreni non rendono come potrebbero: sono incolti, mancano gli animali, la coltivazione, l’organizzazione del lavoro e la buona gestione.

In quest’anno fratel Paolo Brizio riceve la notizia della sua prossima nomina a vescovo di Alba. Vive ancora a Bra ma ha già in mente Alba. Non perde tempo, non è ancora finito il mese di gennaio e già scrive a Madama Reale Cristina di Francia, duchessa e reggente di Casa Savoia. Chiede aiuto per riparare il muro in difesa del palazzo che è in parte distrutto, spogliato di porte, finestre e tetto.
Da lì in poi il palazzo sarà un cantiere, un riparare e ricostruire senza sosta, grazie al sostegno dell’erario regio. Terminata la ricostruzione Sua Altezza Reale Cristina verrà ad Alba con il figlio Carlo Emanuele, il Principe Tomaso di Carignano, le figlie ed il numeroso seguito. I reali, accolti e ospitati per parecchi giorni dalle autorità e dal popolo di Alba, elogiarono la bellezza del palazzo e del luogo.
Il 15 ottobre 1642 Paolo Brizio è il vescovo di Alba, a soli quarantacinque anni. È un uomo alto, con gli occhi castani, la barba grigia e le gote rosate. Indossa la mantella marrone su cui si nota la croce dorata.

La forma trilobata, a trifoglio, di ciascuna estremità della croce è un simbolo, rappresenta il mistero centrale della fede e della vita cristiana, il mistero dell’amore. «Un Dio unico in tre persone»: il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore.
Paolo Brizio nasce in una nobile famiglia braidese proveniente da Asti, studia Teologia e tra i Minori Osservanti, affronta incarichi di responsabilità. Due fratelli lo seguono nello stesso ordine e tre sorelle diventano monache, di cui due clarisse ad Alba. Per Madama Reale Cristina di Francia è un buon consigliere.
Sin dall’inizio del suo episcopato si dedica non solo alla ricostruzione della residenza vescovile, ma al restauro del seminario e della cattedrale. Visita ripetutamente la diocesi e tiene quattro volte il sinodo. Trova il tempo per dedicarsi anche alla scrittura e compone in latino ed in italiano opere di storia.
Nel 1682, a guardare il palazzo dall’alto, come fece l’architetto e incisore fossanese Giovenale Boetto nelle sue vedute, i tetti, gli alberi, le porte e le finestre sono in perfetto ordine. Il muro tutt’intorno è rinforzato. Al centro si vede la torre ricostruita.

Nel cuore del Palazzo si custodiscono i documenti salvati dal crollo, i registri delle visite pastorali dove con cura sono stati rilegati tutti verbali delle visite dei vescovi alle chiese della diocesi, ai monasteri ed alle confraternite; le parole dei Sinodi, le assemblee del clero che con il vescovo delineano le regole per la vita della diocesi: tutte le regole del gioco di un sistema di persone e beni.
L’insieme di tutte le carte e i registri è l’archivio vescovile: non è un semplice contenitore di antiche pergamene, ma un sistema che lega tutte le informazioni tra loro e che contiene – ancora oggi – la testimonianza di una società che vive e si evolve. Un fatto non scritto potrebbe anche non essere reale. Il governo del territorio non prescinde dagli atti che rendono chiari i diritti, i doveri e i poteri. Con l’archivio vescovile ricostituito la diocesi di Alba fa un bel passo avanti.
La cultura della modernità germoglia proprio nel Seicento: si aprono le menti ad una nuova visione del mondo basata sulla consapevolezza della caducità della vita.
E il vescovo Brizio lo sapeva bene.
Come mai in queste “Nature morte” aleggia un leggero velo di polvere? Perché gli spartiti sono appoggiati in quel modo?

Dietro il pesante tendaggio scostato uno strano colpo di scena. Non ci sono figure umane trionfanti, ma strumenti musicali lasciati lì, oggetti inanimati, disposti apparentemente in modo casuale, come abbandonati.
Nel primo dipinto ci sono tre liuti rovesciati, una chitarra e un violino anch’esso rovesciato, posato sul grosso tappeto accartocciato sul tavolo, accanto a manoscritti musicale e libri. La seconda tela è più luminosa. Gli spartiti in basso e la viola vengono incontro allo spettatore per invitarlo dentro la scena.
Una vita misteriosa si percepisce tra gli oggetti inanimati.
È il pittore Bartolomeo Bettera di Bergamo il responsabile di questi piacevoli inganni percettivi che mettono in dubbio le certezze. Le nature morte sembrano vive. Gli oggetti stanno al centro della scena, come se fossero loro i protagonisti al posto degli uomini. In quel tempo Cartesio, Galileo e poi Newton compiono la rivoluzione degli astri celesti e fondano il metodo scientifico.
La certezza che il mondo sia il centro dell’universo crolla e con essa anche l’idea rinascimentale dell’uomo come artefice valoroso del suo destino. Nel Seicento tutta l’umanità è in lotta contro un corteo di mali (fame, miseria, terremoti, persecuzioni e guerre) da dominare, da contenere, da riparare, da organizzare e dirigere.
“Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” scrive William Shakespeare nel primo atto del Mercante di Venezia.

Così Paolo Brizio fa la sua parte: ricostruisce il Palazzo, organizza l’archivio, bada alla comunità e alle cose e muove anche i volumi dell’architettura della cattedrale di San Lorenzo di Alba.
La volta di San Lorenzo crolla in una notte del 1651, con grande fragore. Nel 1652 il vescovo ne guida il cantiere di ristrutturazione: fa realizzare due profonde cappelle nel transetto, dedicate una a San Teobaldo e ai Santi tutelari della comunità, l’altra a San Carlo Borromeo (ora del Santissimo Sacramento), dota l’altare maggiore di un bellissimo tabernacolo e la chiesa di un nuovo organo.

Entrando nella navata centrale della cattedrale non ci si accorge a prima vista di queste modifiche seicentesche, perché riguardano la forma dello spazio, la centralità dell’altare e il suo legame con l’area dedicata ai fedeli, cose che oggi diamo per scontate.
L’intervento modifica la pianta della chiesa rendendola a croce latina. Lo spazio entro cui sono accolti i fedeli assume simbolicamente la forma del crocefisso, come aveva prescritto il Concilio di Trento. Il volume della navata centrale si amplia nel segno della croce, con due ali ai lati, dove sorgono le due cappelle che accoglieranno le speranze e le preghiere della comunità locale per i secoli successivi.
Del più bello dei palazzi si potrebbe anche dire che è uno specchio, come lo specchio di Alice che porta nel paese delle meraviglie o quello di Narciso che imprigiona la sua anima riflessa nel tempio dell’immagine.
Il palazzo vescovile di Alba è uno specchio? Pensiamo di si.
Conoscere il vescovo Brizio attraverso il suo ritratto, comprendere la forma e l’organizzazione data all’archivio diocesano e agli spazi della cattedrale, perdersi nelle illusioni nelle “Nature morte” con gli strumenti musicali è viaggiare alle origini della nostra modernità.
aprile 2021, MUDI Alba
Progetto “Palazzo narrante: dalla storia allo storytelling” nell’ambito del Bando “Patrimonio culturale 2019” della Fondazione CRC.