- MUDI Alba
- Sistema Culturale Diocesano di Alba
Il castello di Santa Vittoria d’Alba in una foto d’epoca di Maurizio Sartore.
A poco a poco ci siamo organizzati per un’overdose di avventure. Abbiamo individuato nell’angolo nord-ovest del complesso, in quello che è chiamato il torrione o rivellino, una piccola stanza al piano superiore, pressoché vuota, con piccole finestre ad ogiva che danno sul parco e sullo spiazzo davanti, che ha, e non può essere altrimenti, una posizione strategica e ci consente di controllare l’accesso al castello e buona parte del parco.
In meno di un secondo la dichiariamo ufficialmente la nostra Tana.
Da lì partono tutte le nostre esplorazioni, lì si torna con il bottino della giornata che, per i primi tempi, è limitato a semplici arredi in disuso trovati qua e là nel castello. Poco a poco la cosa si fa più sistematica e, diminuita la paura che tutti abbiamo (ma che nessuno vorrebbe mai confessare), si esplora con occhio attento chiedendosi cos’è questo? a che serve quello? Si sta prendendo possesso della tana, spingendosi anche – a volte – in situazioni pericolose.
Somma attrazione emana la torre. Basta scassinare la serratura e… caspita, ma quanto è alta? Dall’interno la canna in muratura, con la scala in legno che percorre le pareti perimetrali per raggiungere la cima, è infinita. Ci vuole più di un tentativo per trovare il coraggio di superare qualche scalino malandato e raggiungere la vetta, ma da là… uno spettacolo!
Calarsi (da soli) nei sotterranei è tutto un altro paio di maniche. Avevamo sentito parlare più volte dai nostri genitori del dedalo di gallerie che dal castello scende lungo i fianchi della collina: vie di fuga in caso di assedio. Ora lo scopriamo di persona… non possiamo tirarci indietro.
Con facce spaurite dietro una flebile luce di candele rubate in sacrestia la domenica mattina, mentre smettiamo gli abiti da chierichetti, ci inoltriamo nel dedalo. Con discorsi sommessi tentiamo
di rincuorarci un po’ l’un l’altro e fuggiamo precipitosamente non appena qualcosa fa temere il peggio.
Il luogo più gettonato delle nostre scorribande è la cucina del castello, in cui torniamo molte volte. Ci rimane solo una porticina inesplorata, di fianco ad una vecchia stufa in ghisa. Ha un chiavistello arrugginito che non vuole saperne di aprirsi ma, armeggiando con gli arnesi da cuoco recuperati in un tiretto, riusciamo a farlo cedere. Meraviglia delle meraviglie… oltre l’anta scopriamo un vano nella muratura che si apre su un’enorme cisterna con soffitti a volta, piena d’acqua limpidissima. Alla luce dell’unica torcia a disposizione (ci eravamo modernizzati) si vedono chiaramente i cerchi che le gocce producono sul pelo dell’acqua cadendo dal soffitto, con il caratteristico suono amplificato dalla forma della vasca. Tanta è la sorpresa che, nel trambusto per lo sporgersi, la torcia ci sfugge di mano finendo accesa sul fondo della vasca. Per un attimo s’illumina l’intero volume di acqua raccolta.
Tornati alla tana discutiamo animatamente sulle dimensioni della cisterna e su come sarebbe bello potersi immergere con bombole e respiratori… Irrefrenabile fantasia!
La scoperta più inquietante avviene sempre nelle cucine. Ci infiliamo dalla finestra sul parco, tra il muro ed una porta socchiusa. Un raggio di sole disegna a terra l’ombra della sagoma di un impiccato. Elisa lancia un urlo agghiacciante. D’un fiato saliamo di corsa le scale e ci ritroviamo
ansimanti nell’orto, al sole. Ci vuole un pezzo prima che, passato lo spavento, qualcuno tenti di ragionare sull’accaduto. Tiriamo a sorte chi debba aprire quella porta per vedere ciò che nasconde. Tiriamo a sorte più volte perché nessuno accettava, adducendo le scuse più improbabili. Si delibera di legare un cordino alla maniglia e tutti insieme, da lontano, tirare la porta. Nel frattempo l’ombra è sparita, ma la paura persiste. Con grande timore, sporgendoci da lontano, agganciamo un cappio alla maniglia e tiriamo. Belfagor, urliamo all’unisono, non senza tema, pensando alle spoglie esanimi del famoso fantasma. Una lisa mantella nera ed un cappellaccio di panno sono appesi ad un chiodo sul retro dell’uscio. Con un tridente sdentato portiamo in trionfo quel tesoro nella tana e lo appendiamo in bella mostra al muro.
A qualcuno viene in mente l’idea di girarci un film.
Chissà se oggi, restaurata la torre, sventrati i locali fatiscenti e rimesso a nuovo l’intero complesso, Belfagor, il famoso fantasma del Louvre, evocato tra mura meno blasonate e appeso al chiodo come un cencio smesso, si aggira ancora tra le stanze d’albergo, continuando, insieme alla torre ferita, a cui è dedicata una storia, a stuzzicare giovani menti ad esuberanti fantasie.
Si ringrazia il testimone del Roero Maurizio Sartore per il suo racconto autobiografico.
DATA E LUOGO DEL RILEVAMENTO
R093, 13 dicembre 2021