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La famiglia Pagliasso vissuta nel Novecento in frazione Sanche a Vezza d’Alba.

Una coppia di sposi e una famiglia al completo vissuta nel Novecento in frazione Sanche a Vezza d’Alba. 

Non c’erano una volta

Non c’erano una volta le assicurazioni. La grandine c’era, ed era una tragedia. Nel pieno dell’estate distruggeva ogni cosa, le piantine o le viti erano come morte e in famiglia si sapeva che quell’anno non ci sarebbe stato raccolto.  All’inizio del temporale si poteva solo pregare, che non ci fossero troppi danni. Si sapeva accettare la disgrazia e ci si aiutava a vicenda. C’era una necessaria solidarietà tra le famiglie della frazione o del paese, non si poteva fare a meno di darsi una mano. Il lavoro spesso veniva pagato in farina o in grano, il cibo che serviva per sopravvivere era utile come scambio per barattare altre cose di prima necessità.

Non c’erano una volta i cibi in scatola e neppure il congelatore. Niente merendine, niente scatolette, niente cibo liofilizzato, niente congelati. C’erano conserve e marmellate in abbondanze, fatte in casa o nei cortili. D’estate c’erano frutta e verdura e ci si dava da fare per conservare tutto ciò che non era consumato subito: zucchine, ciliegie, pesche, mele, prugne, mostarda d’uva… bottiglie e barattoli da aprire con parsimonia quando la terra è impegnata a proteggere i semi dal gelo.

Non c’erano una volta le merendine del supermercato e non c’era neppure il supermercato. Si faceva colazione con polenta e latte, oppure con pane e latte e qualche altro companatico. D’inverno e nei periodi difficili in tavola bastava un po’ di minestra, qualche patata o un pezzo di polenta, o anche solo pane e cipolle, con un po’ di sale. Per l’insalata e le uova si aspettava la stagione buona. In primavera si cercavano le erbe spontanee nei prati e lungo il rio. Tuta l’erba ‘ca fa la testa a va bin a fé la mnesta (tutta l’erba che fa la testa va bene a fare la minestra). Alla domenica, a volte si facevamo i tajarin e i papà più fortunati portavano in tavola il bollito.

Non c’erano una volta rifiuti da smaltire. Non ci si  poneva neppure il problema. Quando si puliva l’insalata o altre verdure, i resti si davano alle galline, le bucce di patate ai conigli. Gli ossicini di coniglio o pollo erano per cani e gatti. I sacchetti dello zolfo per fare i trattamenti alle viti erano l’unica carta che si vedeva in giro, ma si usava anche quello!… per accendere il fuoco. Non c’erano una volta i termosifoni, si usava la legna per riscaldare. La carta dello zucchero non si bruciava ma si teneva, perché era bella e andava bene per avvolgere le cose. La stoffa lisa serviva come straccio, ma i vestiti, prima di diventare stracci, venivano riusati più e più volte, riadattati e rivoltati. Non esistevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato. Solo quando è stata inventata la plastica è sorto il problema dei rifiuti. Nel primo Novecento un buon secchio, un mastello grande o un contenitore che sapeva durare era grigio, di zinco. I catini di ferro smaltato c’erano, ma bastava una botta e si bucavano, però c’erano!… e nessuno si sarebbe sognato di buttarli via subito. Si aggiustavano o si facevano aggiustare. Il magnìn passava nelle contrade con il suo carretto per riparare ciò che poteva ancora servire.

Non c’erano una volta i trattori e neppure i decespugliatori, l’aspirapolvere o il robot tagliaerba. La vigna e l’orto venivano lavorati e zappati a mano. La forza era quella delle braccia o degli animali, e gli strumenti erano zappe, rastrelli, scope di saggina, non c’erano  grandi macchine agricole e nemmeno macchine per pulire la cascina o la casa, non c’erano né l’aspirapolvere, né le lucidatrici… La lavatrice fu una bellissima invezione.

Non si andava a Vezza in macchina passando per la strada a fondo valle. Quando da frazione Sanche si saliva a Vezza si passava dai sentieri, alcuni dei quali ci sono ancora, perché a piedi si arriva prima sui sentieri che sulla strada. Si andava su con gli zoccoli, che erano sempre bagnati perché in certe stagioni c’era davvero tanto fango. Gli stivali di gomma furono un’altra bella invenzione del Novecento, perché consentivano di camminare sotto la pioggia e non bagnarsi i piedi.

Furono uno dei tanti cambiamenti che non si erano cercati ma arrivarono.

A proposito di cambiamenti, se ne sono visti tantissimi qui nel Roero in un secolo, prima e dopo le due guerre mondiali. Alcuni non hanno creduto allo sbarco sulla luna, dicevano che era una montatura della televisione perché non era possibile che si andasse sulla luna.

Ora tutto è più veloce, anche la morte delle cose e i cambiamenti sono normali.

Questa fiaba del non c’era è proprio strana. Chi sono i protagonisti? E gli antagonisti? E gli oggetti magici che aiutano l’eroe ad arrivare al lieto fine? E il lieto fine?

Se i protagonisti sono i verbi pregare, aiutarsi, conservare, aspettare, durare, riparare, camminare, cambiare allora forse il lieto fine non è ancora scritto e magari arriverà nel millennio che è appena cominciato. Servono però degli aiutanti, forse delle nuove parole, idee, progetti che nel cambiamento in corso riscrivono il saper sperare, la solidarietà, i modi e i tempi della cura del paesaggio e dell’ambiente, con lentezza ciclica e rispetto della terra, dell’acqua, dell’aria, del fuoco.

Chi sta scrivendo la storia del Roero di domani?


 

Si ringraziano Francesca e Candida Pagliasso per la testimonianza.

Vi racconto una fiaba che tanto fiaba non è. Manca l’ingrediente principale: l’immaginazione. È tutto vero. La fiaba del Non c’erano una volta è una storia di ambiente e paesaggio a Vezza d’Alba. Si parte dal Roero del Novecento, poi arriva il ventunesimo secolo e sorge una domanda sul futuro.
PAROLE CHIAVE
LUOGO DELLA STORIA

Frazione Sanche

DATA E LUOGO DEL RILEVAMENTO

R030, 5/03/2020, Monteu Roero

 

Roero Coast to Coast

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